Nota dell'autore
Questo brano è tratto da La Satanica Tragedia. In pratica, si tratta di un'opera di fantasia in fase di scrittura. In realtà, è un progetto che va a vanti da anni, dove descrivo (con fin troppa dovizia talvolta) gli inferni dei peggiori bastardi (in questo caso, il pedofilo). La forma è un esperimento che fonde una sorta di prosa brutale con una metrica rap (ma per capire cos'ho appena detto, dovreste sentirmi leggerla). Intanto, godetevi questo brano. Ma attenzione: NON ADATTO A STOMACI DEBOLI! 😐
ATTO VII
«Distese di corpi si avvinghiano come anguille in un oceano di rivoltanti liquami, da cui pustole viola esplodono in fiotti di pus, e branchi di mani lacerano vagine, e sfondano sfinteri. E falli ricoperti da cisti stuprano bocche sdentate, che ingoiano sperma, che sputano urina.
Ovunque mi volti, non vedo che sangue, sesso e morte. Come un unico grande organo, che pompa, pulsa, annaspa, e scivola dentro e fuori se stesso, partorendo amorfi organismi che si violentano reciprocamente, per poi reciprocamente farsi a brandelli. Libidine e omicidio.
E il fetore mi è tale, che devo vomitare.»
«E così, genuflesso, osservo il mio ributto, e realizzo di esser nudo. Una vischiosa membrana ricopre la mia pelle, odora di carcassa. E osservo l’orrore che si consuma al mio cospetto, dal pulpito di un’ampia escrescenza, sulla quale per il momento forse son salvo. E mi chiedo cosa mai potrebbe accadere, qualora la bolgia si accorgesse di me. E proprio mentre me lo chiedo, incrocio lo sguardo di ciò che rimane di una donna che ingoia il membro di ciò che rimane d’un uomo, e un essere informe con furia la prende da dietro. E seppur con ferocia ella venga abusata, quel folle sadismo a lei sembra piacere.»
«La sporgenza sulla quale resisto è larga quanto basta per mantenermi a distanza dalle maree che mi assediano. Ma il carnaio si infrange sul bubbone come un’onda sugli scogli, e scivolo, e mi accovaccio, e cerco un appiglio. Ma le mie dita affondano in un composto flaccido che odora di pus. La fu donna è ancora là, che succhia e mi fissa, mentre le scivolano dentro in ogni buco. Qualcosa si è mosso nel nucleo della bolla. La ciste su cui sosto è in procinto di esplodere, la sento muoversi e gonfiarsi sotto di me. E mentre lo penso, lo scoppio mi scaglia avvolto in un grumo di putrescenza, e mi schianto nel bel mezzo dell’orgia, annaspando nello sterco, e vomito, e non respiro, e soffoco.
E il naufragar m’è fatale in questo mare.»
«Qualcosa mi afferra e mi trascina. Qualcos’altro mi afferra e mi trascina in senso opposto. Apro gli occhi, ma non vedo, e forse non è un male. È la fine è quel che penso, no, è solo l’inizio, m’avverte un orrido presagio. Sono inerme, non mi muovo, mille mani che mi afferrano. E un fallo putrefatto vuol entrarmi ne la bocca, non ci passa e me la strappa, ora stupra il mio palato. E scoppian cisti, e il vomito non esce, misto sangue, pus e seme, mi scivola ne la gola, mi cade ne i polmoni. Soffoco, ma non muoio. Ed ora, un altro mostro alle mie spalle, e io stringo più che posso, ma non serve ad impedirlo.»
«E mentre vengo brutalmente seviziato, mi sforzo di pensare altrove. E vedo il sole che risplende sopra casa mia, e la mia donna che sorride, e i nostri figli accanto a lei, nel prato, che giocano, e corrono felici. Vi amo, mi mancate. Ma il cielo si fa rosso, e le nuvole minacciano, e l’erba mi avvinghia, e dalla terra sbucano mostri, che aggrediscono mia moglie, che violentano i miei figli, mentre io non posso nulla. E grido, e cerco i loro sguardi, che mi osservano patendo, e m’implorano di smettere. E i loro volti si fanno altri, di quei bambini che non conoscevo, di quei bambini con cui ho goduto. Così ritorno al mio presente, al gran fallo ne la mia bocca, a le cisti che mi inzuppano, al soffocare, al non morire, a la straziante sodomia. E solo ora con sgomento, realizzo che questa è la mia pena, che vivrò in un ciclo eterno, ne l’inferno che mi spetta.»
© Elia Cristofoli (in fase di scrittura)
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