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Come nacque Solingo

Aggiornamento: 21 ago 2019



Quando mi diplomai al liceo artistico di Verona era l’ormai lontano 1999. Uscii da lì con il voto di 77, le gambe delle donne. Coincidenza? Io non credo…

L'intenzione era quella di proseguire gli studi, preferibilmente con la facoltà di filosofia o lettere, perché disegnare lo sapevo già fare, ma ero anche un "ragazzino alternativo", che amava i libri di Nietzsche, anche se non li capiva. Tuttavia, mio padre mi sputò in faccia la cruda realtà: «se vuoi fare l’università,» mi disse, «lavori e te la paghi! Altrimenti, vieni a lavorare da me, ti pigli mille Euro al mese e inizi la tua carriera». Sapeva come manipolarmi, e io sapevo come farmi manipolare. Mille Euro al mese, a 19 anni, era una tentazione alla quale nemmeno uno stronzetto arrogante come me poteva resistere. Che poi erano un milione al mese, di lire s’intende. Comunque sia, accettai l’offerta e la Onecaktus, storica agenzia di comunicazione veronese, mi assunse.

Parallelamente, passavo le notti con un amico a studiare Macromedia Flash (oggi Adobe Animate), tra musica hardcore e montagne di canne. Un anno dopo, presi la decisione di staccarmi dall’ala paterna per intraprendere una strada tutta mia. Dopo aver valutato con svampita attenzione alcune offerte, che, modestamente, erano parecchie, optai per l’allora Media Group (oggi Bentobox mi pare), una casa di produzione video che cercava giusto un giovanotto che sapesse usare Flash, per proporre ai propri clienti siti internet animati, che all’epoca costavano più di una Ford Mustang. A Verona, quelli in grado si usare Flash si contavano su una mano, ma ad usarlo per fare cartoon ero praticamente l’unico. Firmai il contratto e fui loro per tre anni, che passai ad animare qualsiasi cosa possibile e immaginabile.


Sul set, io alla regia e Giangi che mi "raddrizza" (2006)

Vedere costantemente i miei disegni prendere vita, fece scattare qualcosa in me, e fu in quel momento che entrò in scena Giangi Magnoni, amico ed ex-collega di mio padre, una specie di zio per me, nonché regista pluripremiato di videoclip musicali, che adorava i miei disegni, e un giorno mi propose di fare un video completamente a cartoni animati per Alexia, una cantante allora in voga. Cazzo sì, gli dissi. Io e il mio amico Omar ci lavorammo per tre settimane di fila, soprattutto la notte, perché di giorno dovevamo fare siti come piovessero. Imparammo un sacco di cose in quel mese del 2001, perché si sa, col fuoco al culo e l’odore di una cospicua ricompensa, si impara molto più in fretta che in anni di scuola. Avevamo appena vent’anni e guadagnavamo un sacco di soldi, roba che oggi scordatevelo in questo settore. Eravamo talmente felici che ciao mamma noi si va ad Amsterdam, ci si vede tra due settimane. Che spasso!


Dopo tre anni in Media Group, decisi che era venuto il momento di fare di nuovo di testa mia. Erano i primi anni dell’Euro e avevo un sacco di offerte per le mani, agenzie tra Verona e Milano che mi offrivano 3-4 mila Euro al mese. Ma io non ne volevo sapere, ero intenzionato a fare molti più soldi, da solo, con le mie forze. Stupido piccolo Elia… Così, a 23 anni feci il grande passo, andai da un commercialista e mi infilai nel fianco la più grossa spina della mia vita, la partita iva, meglio conosciuta come «che cazzo ho fatto».

Decisi di chiamare la mia attività «Solingo» perché era una parola che mi era sempre piaciuta. L’avevo imparata dal Carducci, poeta post-illuminista che aveva sempre avuto un forte ascendente su di me. «L’albero a cui tendevi la pargoletta mano, il verde melograno, da’ bei vermigli fiori, nel muto orto solingo, rinverdì tutto or ora, e giugno lo ristora di luce e di calor» scriveva in Pianto Antico, che tutti ricorderete. Ma anche quel frignone di Dante: «ricorsi a lo solingo luogo d’una mia camera, e puosimi a pensare», che, secondo me, voleva dire che si rinchiudeva in camera a uccidersi di pippe pensando a Beatrice.

Ergo, Solingo doveva essere il nome della mia attività. Mi rappresentava caratterialmente, solitario e ramingo, e poi aveva quel suono latino, dalla fonetica quasi ispanica, che faceva molto sono figo solo io. Ma cosa più importante, soprattutto per la mia visione estetica della vita, la parola solingo era composta da 7 lettere, che si prestavano alla realizzazione di un logo cinematografico, sviluppato in lungo, con quella "i" centrale che mi permise di infilarci dentro un tizio col soprabito che sventola. Di seguito il primissimo logo, prima del restyle del 2010. Non riesco a guardare!


Nel giro di qualche mese, la gente iniziò a chiamarmi così, come se Solingo fosse il mio nome d’arte. La cosa mi seccava parecchio, perché volevo sembrasse una mega agenzia pubblicitaria, tipo ehi, guardate che roba, siamo in quattrocento, sede a Verona, New York, Francoforte e Mosca... e invece no, ero solo io. Ad ogni modo, iniziai subito a lavorare come un treno, soprattutto con i musicisti, per i quali realizzavo servizi fotografici, copertine di album, locandine, illustrazioni, digital art, scenografie, e un sacco di altra roba promozionale, ma sempre con un unico comandamento a indicarmi la strada:

«Fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te»

Il che significa che, ogni volta che prendevo un incarico, cecavo di immaginarmi come avrei voluto la mia immagine se quella band fosse stata la mia. Che foto vorrei? Che tipo di copertina? Il sito web come dev'essere? Mi ponevo tutte queste domande e fantasticavo sul tipo di design più adatto, per fare breccia nei cuori dei miei clienti e conquistare i loro animi. Mi ero praticamente inventato un lavoro. Infatti, nei primi anni ero davvero l'unico a farlo, a parte le agenzie s'intende, ma quelle costavano un sacco e le band underground non se le potevano permettere. Io invece, da amante della musica, volevo che anche loro potessero avere un’immagine figa, quanto, se non di più, delle band popolari. Il nome Solingo iniziò a girare in fretta, in tutto il Triveneto, ma in breve si espanse fino a Bologna e a Milano. Volevano tutti Solingo, tant'è che non riuscivo a starci dietro e necessitavo di una mano. Mi corsero in aiuto alleati con grandi talenti, soprattutto uno, di cui tutt'oggi nutro una grande stima, nonostante sia andato a vivere in mezzo a quei cazzo di canguri. Proposi persino un contest su MySpace (RIP), avrebbe vinto chi esagerava di più col mio logo. Quanto ridere! Di seguito alcuni fan-logo, altri li ho dovuti escludere perché troppo anche per me...

Nel frattempo, continuavo a frequentare i set di Giangi, che mi faceva fare di tutto: stop-motion, scenografie, animazioni, e tutta roba che finiva su MTV (RIP anche quello). Ma nel 2005, venni contattato dal suo “acerrimo nemico”, Gaetano Morbioli, per realizzare delle animazioni per Sua Maestà Adriano Celentano. Mi sembrava di tradire il mio maestro e ricordo ancora quando glielo dissi, temevo che Giangi mi desse fuoco. E invece mi disse: «che figata, fallo!». Mi ricordava la mia ragazza incazzata quando le chiedevo cos’avesse. «Niente», rispondeva, ma poi erano cazzi...


Con Rockpolitik cambiò tutto, di nuovo. Se credevo che lavorare ai set di Giangi fosse un lavoro duro, non avevo ancora conosciuto Gaetano. Furono due mesi intensissimi, nei quali lavoravo giorno e notte con la migliore azienda di animazione 3D allora sulla piazza del Nord, la Darkside. Lavoravo talmente tanto che dormivo direttamente in Run Multimedia, mia madre non mi vedeva da settimane e alla mia ragazza venne un esaurimento perché il suo ragazzo amava più il suo lavoro che lei, o qualcosa del genere. Fu estenuante, ma molto gratificante, sia dal lato economico, sia dal lato didattico. Ma soprattutto, conobbi il vero amore della mia vita, la Wacom Cintiq, con la quale convivo tutt'oggi, seppur in una versione più aggiornata... Si tratta del monitor su cui mi vedete spesso disegnare. La parola tablet non esisteva ancora, ma la tecnologia era all’avanguardia, seppur meno potente di oggi. Nella foto, la Cinzia – pardon – la Cintiq di oggi.


Da quel momento, mi sentivo pronto per girare il mio primo videoclip. Furono i Riul Doamnei a concedermi l’occasione, band black metal tuttora in attività. Adoravo il black metal (anche oggi a dirla tutta), perciò non potevo desiderare di meglio come primo test. La produzione durò tre giorni, e la troupe (circa venti persone) fu fantastica. Tutti giovani come me, pronti a mettersi in gioco senza “i grandi”. Volevamo dimostrare di valere di più di ciò che ci facevano credere, e lo facemmo, lo facemmo eccome! Girammo di notte in un forte diroccato, con generatori, luci grosse come poltrone, telecamere super fighe (per allora, oggi farebbero cagare) e casse di Redbull, protagoniste di una discutibile avventura di cui ridiamo ancora...



Fu divertente, ma anche molto edificante, perché stavamo crescendo e tutti noi stavamo cercando di capire quale fosse il ruolo che più si confaceva alla nostra personalità. Naturalmente, io ero quello con le idee più strampalate e con l’ego più ingombrante, per cui la regia mi calzava a pennello. Poi c’era Mirko, con cui ero cresciuto a pane e film, che era quello tecnico e preciso, studiava direzione della fotografia a Milano ed è proprio ciò che è diventato oggi, un direttore della fotografia (DoP in gergo). C’era Davide, che adorava tutto ciò che aveva una lente ed oggi è un ottimo videomaker e fotografo; e il Valdes che strillava per organzizare tutto e noi lo prendevamo per il culo perché sembrava uno hobbit; e il Dilly, grandissimo montatore, che oggi ha presentato un film a Berlino, dove mi ha fatto fare un cammeo, ovvero lo stronzo che muore subito; e Julia, grande truccatrice che tutti amavamo e guai se non c’era. E la lista è lunga, perdonatemi se non cito tutti (il backstage è qui sopra).

Col secondo videoclip, aggiustammo il tiro. Furono gli Arthemis, band power-metal storica di successo internazionale. Durante le riprese, rischiammo più volte l’infarto dalle risate. Era impossibile parlare con quegli squinternati senza sbellicarsi. Detta così sembra divertente, e lo era, ma vi assicuro che avevamo raggiunto un punto in cui avevamo letteralmente paura di aprir bocca, perché quei matti avevano sempre le battute a raffica pronte all'uso. E non parlo di battute sottili e intelligenti, ma di battute talmente ignoranti e demenziali che nemmeno un Mel Brooks strafatto di crack riuscirebbe a concepire. Avevamo letteralmente paura di ridere!



E niente, poi arrivarono tutti gli altri, uno dopo l’altro. La voce si era sparsa, Solingo era quello che faceva l’immagine alle band, e faceva anche i videoclip. Tanta roba! Ma l’ulteriore passo era dietro l’angolo…

Un giorno del 2006, arrivai in K+ sul tardi, come al solito, tanto io mica ero assunto, ero un libero professionista e potevo fare un po’ il cazzo che mi pareva, purché facessi quello che dovevo fare nei tempi prestabiliti. Entrai salutando tutti di fretta, e intravidi un tizio alto con capelli sparati che parlava con Giangi. L’avevo già visto da qualche parte, ma non ricordavo dove. Mi appollaiai alla mia postazione e mi misi a disegnare sulla Cinzia, con gli Area in sottofondo. Appena partì Gioia E Rivoluzione, cavallo di battaglia della prog-band anni ’70, una voce familiare la canticchiò avvicinandosi a me. Era il tizio alto con i capelli sparati, che appena mi fu davanti mi disse con un forte accento bresciano: «ma dai, un ragazzo così giovane che ascolta gli Area!». «Certo», risposi io, «adoro Stratos». «Piacere, Omar!», replicò il tizio. Merda, pensai, come cazzo ho fatto a non riconoscerlo? Era Omar Pedrini, leader dei Timoria, leggende del rock italiano. Con i capelli corti non l’avevo riconosciuto. In compenso io li avevo lunghi fino al culo. Fu un colpo di fulmine e da quel giorno iniziammo una collaborazione che dura fino ad oggi. Aiutai il Giangi ad allestire il video di Shock, pezzo che lo riconsacrò dopo la celebre esperienza di “quasi morte”. In realtà, facevo solo foto di backstage, ci provavo con le ballerine e nel tempo libero parlavo di musica con Omar. Aveva i miei stessi identici gusti – black metal a parte – solo che lui era molto più colto, e di conseguenza ne subivo il fascino. Mi colpì particolarmente la sua memoria per i nomi, era tipo Shazam! Un mese dopo ero in Arena al Festivalbar a girare nei backstage.

L’anno successivo, Omar mi chiamò per chiedermi una cosa che non mi sarei mai aspettato. Voleva che girassi un videoclip, il secondo singolo del suo album post-mortem. Minchia, pensai, e adesso chi glielo dice al Giangi? In realtà, non me la sentivo di girarlo, primo perché non ero ancora del tutto pronto per un affrontare un big come lui, secondo perché porca puttana, ok 4 o 5.000 Euro, ma 30.000 non sapevo manco come fossero fatti! Seppur felice della stima e della fiducia che Omar e la Carosello dimostravano nei miei confronti, fui costretto a declinare l'offerta e, con tutta l'onestà che da sempre mi contraddistingue, dissi ad Omar che poteva contare su di me per la direzione artistica, per i disegni e le animazioni, ma la regia avrei preferito fosse affidata a Giangi, più esperto e più adatto di me. Il fatto è che dieci anni fa i video non si facevano con una reflex e via! C’era tutto un sistema, una gerarchia, le telecamere costavano migliaia di Euro al giorno, c’erano attrezzature di cui a malapena sapevo l’esistenza, e ruoli che ignoravo, e un sacco di altre cose da tener conto che solo l’esperienza ti insegna. Rischiavo di bruciarmi prima ancora di iniziare. Omar comprese e accettò il compromesso. Il video l’avrebbe girato Giangi, ed io sarei stato all’effettistica. Nacque Amore Fragile, un video che ci hanno imitato in molti, ma nessuno ha mai raggiunto la stessa qualità. Fu un parto plurigemellare, mi aiutarono solo due disegnatori, il Betta e Sbrò. Anche qui, giorno e notte a disegnare e ad animare frame by frame. Lo potete vedere dal backstage (se lo scovate), in cui ho la faccia da zombie e sostengo che il rotoscoping è una nuova tecnica di animazione, nonostante sapessi benissimo che ha quasi cento fottuti anni. Quando lo vidi pubblicato, volevo sprofondare nelle tenebre, ma vabbè ormai il danno era fatto, tanto nessuno sapeva cosa cazzo fosse il rotoscoping. Qualcuno pensava fosse una perversione sessuale...


Tutto procedeva velocemente, ed io crescevo set dopo set. Ma per i miei trent'anni, mio padre mi fece un regalo che rivoluzionò tutto quanto. Ancora? Sì, ancora! Che vi devo dire, ho vissuto il cambiamento tecnologico, le cose cambiavano (e cambiano) bruscamente. Mio padre aveva notato la mia ammirazione per una nuova reflex in circolazione e me la regalò per il compleanno. Era la celebre Canon EOS 5D Mark II, l’unica reflex digitale in grado di girare video in Full HD. Fui praticamente il primo ad averla, anche stavolta una specie di inconsapevole pioniere. Nessuno ci credeva, Mirko mi insultava, e così altri direttori di fotografia. Testai il video per la prima volta durante una produzione con la Aston Martin in pista ad Adria. Mentre Mirko e i suoi uomini giravano con la Panasonic P2, io facevo qualche video backstage. Ero talmente eccitato col nuovo giocattolino, che mi stavo dimenticando di fare il regista. Ci pensò Mirko a darmi una raddrizzata. Ma quando riversammo le riprese sul Mac, allora anche lui rimase a bocca aperta. Ci accorgemmo della bellezza, della nitidezza e della luminosità delle immagini. Porca merda, esclamammo, una macchina da 3.000 € aveva appena umiliato una macchina da 20.000.

Dovevamo provarla seriamente, su qualcosa di più creativo, per sfruttarla in tutti i modi possibili. Fu così che nacque Ignoranza Domina, un corto pseudo-demenziale, una mezza via tra l’omaggio a un nostro caro amico e la sperimentazione della 5D. E fu così che, nel giro di un paio d'anni, le reflex digitali si impadronirono brutalmente del mercato del video, consacrando la Canon nell’olimpo del videomaking.

Nello stesso anno, Giangi mi chiese di usare la Canon per le riprese di un videoclip di Niccolò Fabi. Non era il caso, gli risposi, poiché la Canon girava a 30 fotogrammi al secondo, modello USA, e l’aggiornamento del firmware per i 25fps sarebbe arrivato nei prossimi mesi. Era come parlare arabo, se ne sbatterono tutti e girammo il video di Niccolò Fabi. Carino, ci divertimmo, nonostante lo scetticismo del direttore della fotografia, che detestava quella reflex e la reggeva tra le mani come fosse una merda secca. Fatto sta che, quando il montatore si accorse che era tutto a 30fps, gli venne un coccolone. Io l’avevo detto. Ora, per i profani, ciò significa che se il video fosse finito sulle nostre tv (dove effettivamente doveva finire, visto che si trattava di Niccolò Fabi, mica l’ultimo degli stronzi), beh, ecco, come dire, quel video sarebbe “scattato”. Non esistevano ancora convertitori decenti, per cui te lo cuccavi com’era! In realtà, ironia della sorte, l’aggiornamento allo standard europeo arrivò dopo una settimana...


Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti! Ho fatto un sacco di esperienze, bellissime, ma anche bruttissime. Ho raggiunto vette, ma anche abissi. I fallimenti sono i migliori insegnanti, perché prima di ripetere certi errori ci pensi quattrocentomila volte. Se non fallisci, non capisci dove sbagli e non aggiusti il tiro. Certo, magari evita di fallire sempre, altrimenti è il caso che ti poni qualche domanda. Ma la resilienza, parola tanto in voga oggigiorno, è la capacità di incassare un fallimento, o di rimettersi in gioco, avendo imparato la lezione e avendone fatto tesoro per il futuro.

Oggi voglio condividere tutto ciò che ho imparato in vent’anni di set con chiunque voglia imparare questo mestiere. I tempi sono cambiati, tutto è più veloce e frenetico e se non si rimane aggiornati, si viene tagliati fuori. Ma voglio veder crescere orde di creativi, abili e veloci, scattanti, dirompenti, con la brama di conquista e la voglia di imporsi, con i quali costruire altri progetti, inventare altre storie, crescere, imparare assieme e conquistare il mondo. No, quest'ultima cosa no...

La creatività rimane sempre la mia lama più affilata: scrittura, illustrazione, direzione, montaggio, amo tutto ciò che è arte applicata alla comunicazione. Ma ora ho un novo obbiettivo, un nuovo sogno da esaudire. Perché se c'è una cosa che non smetterò mai di fare, è sognare, nel mio muto orto solingo.


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